Vortice di emozioni che poggia su di un terreno infinito. Irrazionale movimento che nasce da un moto dell’animo inconscio. Dinamici gesti controllati da delicata energia. Eterna preghiera che si esprime col corpo privo di voce udibile. Poesia di versi che prende forma nelle forme corporee. Musica dello spirito le cui note si diffondono materialmente nello spazio infinito…note che prendono, nell’aspetto, le linee di un corpo leggiadro. A metà tra corporeo e spirituale, tra umano e divino, tra il razionalmente controllabile e l’inspiegabilmente illogico, quasi vicini al trasumanare, quegli uomini sconosciuti danzavano davanti ai miei occhi.
Non le avevo mai viste prima, quelle persone, ma sentivo di essere vicina a loro come mai mi era accaduto. Riconoscevo l’armonia dei loro corpi, il loro sguardo assorto ed impercettibile, solo a tratti percepibile nei loro continui giri su loro stessi. Ritrovavo in loro il medesimo desiderio d’infinito che accomuna tante anime sensibili. Ravvisavo la loro dimensione finita, che, negli infiniti vortici che delineavano, cercavano di annullare con quella danza. Tutti quei cerchi che continuavano a realizzare a velocità elevatissima, quasi fossero compassi dotati di anima propria, potevano sembrare, ad un occhio poco attento e ad un animo meno sensibile, totalmente privi di senso, finalizzati solo a stupire un osservatore ingenuo e facilmente impressionabile.
Io invece lo sapevo…sentivo che in quella danza era contenuta tutta la storia umana. Quella dell’uomo di ogni tempo e di ogni dove, di ogni età e contesto sociale.
I dervisci che danzavano incessantemente erano l’immagine dell’incolmabile bisogno d’illimitato dell’animo umano.
Totalmente calamitata da quella magia mi chiedevo come facessero ad andare avanti anche delle ore senza mai perdere il controllo dei movimenti. Quand’ero ancora in Occidente mi era stato detto che per fare questa danza si viene educati sin da piccoli a mantenere l’equilibrio, a concentrarsi ed a controllare il corpo, abituandosi ad aumentare sempre di più il numero di giri effettuati.
Non è solo questo però, ne ero certa. Il perno vero attorno al quale il corpo di quei dervisci ruotava non era la gamba, che doveva essere assolutamente tenuta tesa per far si che l’esercizio riuscisse, c’era qualcos’altro.
Cercavo quel qualcosa nei loro abiti impreziositi e nelle loro ampie gonne bianche. La testa era sempre nella stessa posizione, leggermente inclinata di lato, ma nemmeno la postura bastava a giustificare quell’imperturbabile moto. Le braccia, ora elevate verso il cielo, ora sospese leggiadramente a mezz’aria, sembravano delle ali pronte a spiccare il volo.
Tutto questo però non era sufficiente. Qualcos’altro, che non riuscivo a cogliere, completava quell’esercizio di perfezione. Negli occhi talora socchiusi di quei ballerini enigmatici, si poteva iniziare a leggere la facoltà che era il nutrimento essenziale della loro danza. Ogni parte del corpo era nel punto giusto, tutto nel loro essere era esatto ed armonioso.
Quell’immagine vaga che si faceva spazio nella mia mente iniziava a rendersi concreta, ad acquisire un senso. Ora potevo capire. Quegli occhi così espressivi seppur fuggitivi, non erano altro che la voce del cuore.
Era il cuore il vero perno di quegli incredibili compassi. Non solo la posizione delle braccia, non quella del volto, non la gamba tesa, non il perfetto controllo del corpo, non l’educazione ricevuta. Il vero motore e centro di quei corpi era il cuore. Sembravano dire: - Ascolta il tuo cuore, dialoga con lui…perditi nella danza dell’anima, cerca di superare la tua dimensione finita…ritrova te stesso nell’infinito”.
Cos’altro ci può accomunare noi tutti, se non il nostro bisogno d’altro, che vada al di là della dimensione corporea?
A loro modo quegli uomini, che osavano sfidare la finitudine umana, erano portavoci di un messaggio universale. Quella danza li rappresentava e li rendeva liberi. Non si limitavano a richiudersi in loro stessi, ma sfidavano il tempo e lo spazio per dimostrare a tutta l’umanità che si può dare un senso alla propria vita. Il desiderio d’infinito, seppur limitatamente, può essere coronato, e quella danza, che è una preghiera, era al tempo stesso mezzo e fine per elevarsi verso l’immenso.
Quelle trottole umane continuavano a tendere verso il sovrumano cercando sempre più di superare la loro dimensione finita. Col loro corpo, i dervisci, formavano figure meravigliose. Si scambiavano di posizione tra loro, formando coreografici motivi e figure. Ruotavano divisi in coppie l’uno a fianco all’altro formando un grande cerchio che si apriva e si richiudeva. Ruotando, riproducevano il cammino del sole e degli astri.
Uno soprattutto, che se ne stava al centro a rappresentare il sole, colpì la mia attenzione: aveva la tipica doppia gonna sovrapposta particolarmente ampia, più di quelle degli altri dervisci. La chiamano tannura, termine che dà il nome anche alla danza stessa. Mentre continuava a girare, come si stesse sfilando un guanto, fece scivolare lo strato superiore della gonna verso l’alto. Per farla risalire, muoveva il busto in senso contrario a quello del suo giro riuscendo ad isolare perfettamente le varie parti del corpo, quasi come se ciascuna di esse fosse un organismo distinto rispetto all’altra. Seppur si percepisse questa differenza tra le diverse porzioni del suo corpo, tutte sembravano però guidate quasi da un unico logos che conferiva loro un’armonia tale da accomunarle ed armonizzarle tutte. Lentamente quella candida stoffa risaliva in alto percorrendo tutto il corpo del danzatore. Sfiorava le sue parti più importanti nelle quali era scritta la sua verità: il suo cuore, la sua mente e, in ogni momento, la sua anima.
Intanto quel derviscio, al centro rispetto a tutti gli altri ballerini, aveva innalzato le braccia verso l’alto. La sua preghiera rivolta al cielo continuava ancora.
Portando quella gonna fino alle mani alzate, la faceva sempre più roteare, ora con le braccia, ora con i palmi. Con rapidità e precisione e con un movimento che non sono riuscita a cogliere, che forse non ricordo o che non sarei nemmeno in grado di descrivere, fece di quella tanto grande stoffa un tanto piccolo fagotto. Lo prese tra le braccia e lo portò poi all’altezza del petto, proprio vicino al cuore, come fosse un bambino vero. Portava in braccio questo immaginario neonato e, roteando ancora e, roteando sempre più, ballava con lui sulle note della ninna-nanna più dolce che fosse stata inventata. Una musica leggera e melodiosa, in cui si potevano sentire le percussioni dell’Ud e le note del liuto arabo, completava quella poetica atmosfera. A fianco alle sure del Corano ed alla preghiera Allah el-akbàr, la canzone recitava anche le parole dell’epitaffio riportato sulla tomba di Sarenput-Assuan, membro della dodicesima dinastia, capo dei sacerdoti di Khnum e comandante delle guarnigioni delle terre del Sud.
Tradotti, quei versi, dicono più o meno così:
“ sei, certo, la stella generata dall’Occidente,
e non morirai.
Ho gioito perché mi è stato concesso
di toccare il cielo.
La mia testa ha trafitto il firmamento,
ho scalfito il ventre delle stelle,
ho raggiunto l’allegria
cosicché brillavo come una stella,
danzando come una costellazione…”
Ed intanto la loro danza continuava.
Quei dervisci rappresentavano il rapporto tra cielo e terra, tra corpo ed anima, tra Dio e uomo. Fondendo questi binomi ed annullandoli al tempo stesso, erano riusciti a conquistare la più alta realizzazione spirituale e la coscienza della realtà. Sapevano esprimersi attraverso una totale fusione tra corpo ed anima invece che con le parole. Riuscivano, con questo loro magico strumento, a dire qualcosa che va al di là di ciò che si può spiegare.
Ho sempre pensato che esistano persone che hanno tanto da trasmettere ma riescono a farlo solo attraverso mezzi inusuali, diversi dal dialogo con l’altro o dall’orazione di fronte ad un vasto pubblico. I musicisti contemplano nelle note il loro alfabeto e si esprimono attingendo al vocabolario della musica, i pittori usano linee, gesti, idee, colori per dare vita a realtà nuove, gli scultori liberano la forma imprigionata nel materiale, plasmando le sagome dettate dalla loro immaginazione e soprattutto dalla capacità di rappresentare non la propria anima, ma quella della nuova creatura che sta nascendo, anche i matematici creano belle forme che sanno legare tra loro grazie ad una logica ed impeccabile, affascinante armonia, i teatranti cercano in fondo a loro stessi i frammenti del loro animo che siano il più possibile assonanti al personaggio da interpretare, i dervisci avevano scelto movimenti magici e con essi raccontavano una storia.
Io invece scrivo.
Mi chiamo Layla, che in arabo, la lingua delle mie origini, significa “notte”. Molte ragazze qui si chiamano così perché la notte è un momento importante della giornata nel quale Muhammad il profeta ha ricevuto tutte le sue rivelazioni. Pur essendo stella generata dall’Oriente, è la prima volta che torno nella mia terra dopo tanti, troppi anni. Quando sono partita avevo solo sei anni ed ora…molti di più.
Un altro paese gentile mi ha accolto e forse mi ha salvato. Ho avuto una vita serena con persone che mi hanno mostrato il loro affetto più che potevano e mi hanno aiutata ad essere quella che oggi sono. So che non avrebbero potuto fare di meglio. Grazie a loro ho potuto toccare il cielo.
Ma un giorno mi sono svegliata ed ho avvertito un’insoddisfazione, un disagio nel mio animo, nella mia mente, nel mio cuore. Non riuscivo più a reggermi in piedi, avevo perso l’equilibrio…dov’erano le mie radici?
La linfa vitale non scorreva più in me, ero in bilico, le mie foglie si stavano ingiallendo. Provavo dolore, ma una voce mi diceva “non morirai”.
Dovevo reagire per non appassire.
Sono partita alla ricerca delle sostanze nutritive che avrebbero rianimato il mio spirito, che mi avrebbero fatto nuovamente brillare. Ho cercato dappertutto, incessantemente, smaniosamente, avidamente.
Non ho mai preso fiato, fino a che sono arrivata in questa terra, dove si balla cantando e si prega danzando, dove ci si saluta augurandosi un mattino di benessere ed un mattino di luce, dove ci si dice “piacere” mettendosi la mano sul cuore e dove non si smetterebbe mai di baciarsi sulle guance se si vuole particolarmente bene a qualcuno, dove non c’è fretta di andarsene dopo essersi congedati. Anche dove però, talvolta, il rumore delle bombe viene nascosto col profumo dell’incenso. Dove non si ha un cognome e spesso si conquista un’identità solo dopo aver dato alla luce dei bambini, diventando “madre di” o “padre di”.
Non so quanto rimarrò. Ora che ho ritrovato le mie radici non so ancora se vorrò ben piantarle e far fiorire una nuova creatura così forte da scalfire il ventre delle stelle.
Una cosa è certa: avevo bisogno di tornare e di sapere, per colmare la mia inquietudine.
Stasera andrò in quel tekkè dove danzano i ballerini magici.
Nella notte, che porta il mio nome, ritroverò me stessa danzando come una costellazione. Attorno al mio cuore.
di Anconetani Lioveri Angela
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